Gustav

 Anno 2427. Stazione mineraria spaziale internazionale Pangea in orbita geostazionaria.

Qui vengono trattati i minerali estratti dalle rocce recuperate dagli asteroidi del sistema solare. Con il procedimento Blankov-Bartoli sfruttando il vuoto e l’assenza di gravità e altri trucchi da scienziati, si ricavano metalli e sostanze purissime che vengono poi portate sulla Terra per la lavorazione finale.


E’ mattina, per quanto possa essere considerato mattino in una stazione spaziale. In lontananza rumori, tonfi, scricchiolli. Alcuni membri dell’equipaggio sono seduti nell’area mensa per la colazione.

“Vieni Jesus, siediti accanto a me. Ho preparato il caffè e le brioches calde”

“Madonna che sonno… ciao Tania, ciao Liam, Mark, ciao Capuozzo. Spostati un po’, grazie. Che profumino…”

 “Mark hai visto se quelli del turno notturno hanno terminato le procedure?”

“Si Liam, ho controllato prima di venire qui, tutto a posto, il minerale nuovo è arrivato al dock 17. Qualcuno mi passa lo zucchero?”

“Eccolo. Capuozzo, hai controllato che l’ultimo carico di astro minerale sia in fase di lavorazione? Abbiamo tempi stretti e il cargo-shuttle verrà a caricare i metalli fra due giorni”

“No Liam, ieri ero di turno al convogliatore. Se ne stava occupando quel fetuso di Gustav, è lui il capo tecnico no?”

“Dato che qui non c’è qualcuno mi sa dire dove è finito? qualcuno l’ha visto?”

Nessuna risposta dai presenti.

“Cazzo, in questo ammasso di ferraglia nessuno sa mai niente! adesso lo vado a cercare e se lo trovo giuro che lo infilo nel trituratore. Sta oltrepassando i limiti della mia pazienza!”


Liam furibondo abbandona la colazione e si incammina nei corridoi della base cercando Gustav.


….ma dove si è infilato quel vecchio bestione del cazzo, sempre rogne con lui, che carattere di merda, norvegese dei miei coglioni. I vichinghi, si… ma vaffanculo! Passa il tempo a litigare con tutti, sempre incazzato come un toro. Non capisco perché lo abbiano mandato quassù, sarà anche un bravo tecnico con anni di esperienza ma, cazzo, sembra sempre una bomba a mano innescata. Se non fosse così grosso e brutto lo prenderei a cazzotti. La settimana scorsa se non gli toglievano da sotto le mani Willy lo avrebbe fatto a pezzi, solo perchè quel coglione gli aveva fatto una battuta sbagliata nel momento sbagliato riguardo al suo aspetto. E in quattro abbiamo fatto fatica a tirarlo via, sembrava posseduto dal demonio. E Willy ora è in infermeria mezzo morto. Vaffanculo, già siamo a corto di personale.  Appena rientriamo sulla Terra gli faranno un bel procedimento disciplinare. E non si trova, ma dove cazzo è finito, bastardo norvegese, ho guardato dappertutto, mi rimane solo la cupola….


La cupola è all’estremità della base, più che una cupola è un enorme oblò puntato verso la terra con attrezzature tecniche, fotografiche e di ripresa. A parte le fievoli luci dei led e dei piccoli schermi delle apparecchiature l’ambiente è nel buio. Di fronte alla cupola un sedile dove, seduto ed immobile, Gustav che fissa la Terra. Sembra finta, una immensa e perfetta sfera blu, verde, ocra, e bianco che occupa quasi tutta la visuale della cupola. E la illumina tutta.


“Gustav, cazzone, finalmente! è mezz'ora che ti cerchiamo. Perché sei qui? Che hai, ti senti bene?”

“.........”

"Rispondi!"

“.........”

Liam tocca una spalla di Gustav

“Gustav rispondi porca puttana, che ti succede…”

Al tocco della mano il grosso norvegese ha come un sussulto e poi lentamente si gira verso Liam. In quel volto che ha visto più cazzotti che carezze, con la barba che cerca inutilmente di nascondere le cicatrici, un naso che sembra disegnato da Picasso, si perdono due occhi azzurri come gli oceani che ha di fronte da cui scendono silenziose e calde lacrime che si perdono tra le rughe di quel volto da vecchio guerriero e con la voce rotta dall’emozione risponde

“guarda ........  è …… bellissima …”




Elogio alla Semplicità


Questa volta non scriverò un mio racconto ma ne riporterò uno, bellissimo, di John Lane tratto dal suo libro "Elogio della Semplicità" che, incredibilmente, è molto simile alla mia concezione di vita.


Un uomo d'affari vide con fastidio che il pescatore, sdraiato accanto alla propria barca, fumava tranquillamente la pipa.
    "Perché non stai pescando?" domandò l'uomo d'affari.
    "Perché ho già pescato abbastanza pesce per tutto il giorno"
    "Perché non ne peschi ancora?"
    "E cosa ne farei?"
    "Guadagneresti più soldi. Allora potresti avere un motore da attaccare alla barca per andare al largo e pescare più pesci. Così potresti avere più denaro per acquistare una rete di nailon, e avendo più pesca avresti più denaro. Presto avresti tanto denaro da poterti comprare due barche o addirittura una flotta. Allora potresti essere ricco come me."
    "E a quel punto cosa farei?"
    "Potresti rilassarti e goderti la vita."
    "E cosa credi che stia facendo ora?"

Ecco, per me in queste poche righe c'è il succo della vita.








MONICA (1958 - 2012)



Intorno a me solo arido deserto di ombre,

i miei occhi asciutti come questo caldo vento.

Le parole non dette ed il tempo che è passato,

ricordi lontani, nascosti, evitati,

di una vita che è una clessidra,

come questa sabbia che fugge dalle mie dita.

Adesso ho deciso di scriverti una lettera

con le parole che ho dovuto scavare.

L'ho consegnata ad una nuvola

che prima o poi, vedrai, ti troverà

e leggendotela si aprirà finalmente

in un silenzioso pianto.

Tutte le mie lacrime nella pioggia.



di tutte le ferite che mi hanno lasciato delle cicatrici, questa è la più brutta

POLITICAMENTE SCORRETTO



Adesso posso dirlo: mi sono rotto le palle del politicamente corretto. Abbiamo perso il senso delle cose, la giusta misura, la ragione, il raziocinio.
Tutto deve essere omologato, carino, mai offensivo per le centomila sensibilità diverse, preconfezionato, rispettoso. E porgi l'altra guancia.

A volte, fa bene contare fino a cento e cercare di ragionare, mediare, tollerare.
Altre volte è preferibile la scorciatoia di un sano e liberatorio vaffanculo. Che è la libertà di esprimere le proprie opinioni, pagandone, al limite le conseguenze.
In questo mi ritengo da sempre politicamente scorretto e se necessario ti rompo il naso. E mai porgerò l'altra guancia.






UN BOLERO DI SOLITUDINE

 

Ti ho accompagnata davanti alla chiesa per la tua messa serale, io non entro, non credo negli dei creati dagli uomini. La piccola chiesa è di fronte al mare. Attraverso la strada e mi incammino lento sulla spiaggia in questo tardo tiepido pomeriggio di primavera. Non c'è nessuno, non è ancora stagione. Nessun fastidioso rumore umano. Mi siedo sulla sabbia davanti al mare. E' ancora calda, piacevole. E guardo il sole che sta tramontando nei miei pensieri, nella sua emozionante bellezza. Leggere onde si appoggiano sul bagnasciuga in un lento ritmo continuo. Il canto delle onde in una calda voce arancione di luce. Una tiepida brezza di mare ha preso il posto del vento di terra portandomi profumi di salsedine e di viaggi sognati. Una pennellata di acquerello col colore della malinconia mi carezza l’anima, come un bolero di solitudine profondo come il mare davanti a me. La saudade brasiliana che noi occidentali non riusciremo mai a capire. Ma non è tristezza, è anzi piacevole questa malinconia, perché davanti al mare io mi arrendo e lascio che mi ripulisca la mente dalle brutture di questo mondo. Prendo un pugno di sabbia e lo lascio scorrere tra le mie dita. Come la mia vita che scorre e che finirà, sono già un bel po’ avanti. Quanti granelli di sabbia ci sono in un pugno? la sabbia scorre lentamente. Vorrei contarli per gli anni che mi restano. Sono una clessidra di carne e ossa. Ogni granello un minuto della mia vita. Allora la mia vita fino ad adesso è composta da 34.689.600 granelli di sabbia. Sembrano tanti, poi guardo la spiaggia, quanti granelli di vita ci sono in questa spiaggia? Nel mio pugno di sabbia ci sono granelli di tristezza, di gioia, di amore, di errori, di esaltazione, di amicizia, di piacere, di lacrime e risate, di orrore e paure, di cose dette e non dette, di bugie e verità, di sbagli e cazzate, di sesso e amore, di scelte giuste anche se sofferte, di assenza di rimorsi e di rimpianti, di ricordi che come queste onde mi lambiscono il cuore. Di vita vissuta. Qualche gabbiano passa sopra di me veleggiando silenzioso nella brezza marina. Da dove vieni, dove vai? Quante sirene hai visto? Quanti capitani Achab? Il sole lento scende all’orizzonte, nella mente faccio partire una colonna sonora perfetta per questo momento che vorrei fermare per sempre. Un’istantanea di pace e gioia e consapevolezza. Di quanto mi sento piccolo e insignificante davanti a questa immensa poesia della natura. Fermati qui sole. Fermati adesso. Attraversami con questa luce dorata. Guarda il sorriso sulle mie labbra. Cosciente che sono dentro a una cornice, ma non sono la cornice. E che per essere quadro devo cercare i pennelli giusti ed i giusti colori. Voglio ubriacarmi col profumo del mare, stordito addormentarmi sotto una coperta di stelle con la luna che mi guarda benevola e materna e risvegliarmi su questa spiaggia col sole che rinasce e mi accarezza col suo calore. E riascoltare il canto delle onde in un altro bolero di solitudine. Così, per sempre. Fino al prossimo tramonto. Ma la messa è finita, i fedeli escono e tu mi stai aspettando. Il sole ormai è solo una sfumatura di colore. Mi pulisco la mano dalla sabbia della mia vita. E ti raggiungo, un bacio, ti prendo per mano. Stasera ho voglia di pizza e birra. Va bene così.




LA FOTOGRAFIA


Mi sono ricordato di averti dimenticata.
Ma oggi, aprendo un cassetto pieno di cose della vita raccolte, abbandonate e mai buttate via, mi è finita tra le mani una vecchia foto in bianco e nero con noi due. Eravamo giovani, io più di te di qualche anno. Io sorridevo anche se il mio cuore soffriva, tu inerte. Ero giovane e coglione, altrimenti non mi sarei innamorato di te.
Eri bella, non c’è dubbio, mi piacevi da morire e ti desideravo come solo un giovane con gli ormoni impazziti può desiderare. Tra l’altro scopavi malissimo, come se fossi in tanatosi, anorgasmica, ma ero innamorato, un vero coglione.
Volevi cambiarmi, cambiarmi il carattere, il modo di essere e di pensare, per plasmarmi al tuo ideale di uomo. Ma con me era impossibile anche se ci ho provato. Che coglione, ma ero innamorato.
Mi lasciavi almeno due volte al mese con le scuse più assurde “per mettermi alla prova” così mi dicesti, poi. Ed io soffrivo come un cane perché ero innamorato, che coglione.
Dopo un anno mi si è accesa la spia del troppo pieno, ho saturato. E con il cuore in briciole me ne sono andato, non ero più un coglione e mi ero disamorato.
Ci sei rimasta malissimo, perché pensavi di aver vinto.
E’ durato un attimo, ho buttato via la foto, ho chiuso il cassetto e mi sono dimenticato di averti ricordata.




DESERTO


Il vento. Vento caldo che mi attraversa
Sole che lentamente si adagia sulla sabbia
Dune, ininterrotte, infinite, sconfinate, eterne, estreme.
Dune tremanti di calore riflesso danzano ritmi ancestrali
Ondeggianti come onde di un immobile mare

Dune che seppelliscono i nostri antenati, coprono città dimenticate
Popoli che le hanno calpestate, scomparsi, ora sono solo sabbia
Distese di verde sconfinate che vivono ancora nelle leggende tuareg
Miraggi, un nulla fisico, esaltante e pericoloso, incantesimo senza fine

Deserto.
Io lo sento l’odore del deserto? Chiudo gli occhi e respiro lentamente
Forse non lo sentirò, i beduini ed i cammelli me lo possono raccontare
Ombre che si allungano, luce ambrata su colore ocra
Solo gli spiriti che si aggirano non hanno ombra, ma lamenti silenziosi

Deserto, infinito, onde su onde di estesa sterilità
Deserto, infinito, fino ad incontrarsi con il cielo
Dalle lontane pianure della Giudea fino al centro delle rocce del pendio dell'Attica
E poi ancora e ancora, un mantra di polvere
Mi sento schiacciato dal nulla, ed il vento caldo mi attraversa

La maestosità di un mondo atavico che mi chiede rispetto
Guardo l’orizzonte e mi arrendo
Il sole lentamente si nasconde dietro le dune
La mia ombra mi abbandona, tornerà domani, lo so

Mi stendo sulla sabbia ancora calda e guardo il cielo
Nel buio veloce un nuovo deserto fatto di inchiostro e di stelle come granelli di sabbia
Due deserti mi avvolgono, materni, due insaziabili amanti
Momenti di profonda commozione, comunione con l’esistere

Il vento si è placato
Adesso sono io il vento tra le dune.




Prefazione per "L' Ancella Tracica"

(prefazione che ho scritto per un trattato filosofico sulla fotografia di Manuel Omar Triscari)

Buio… Click… una luciferina luce rossa illumina una piccola stanza.
Un leggero odore di aceto ed un lieve sentore di uovo marcio nell’aria, odori chimici, sospesi. Un vecchio lavello, vaschette di plastica, un vecchio ingranditore su un lato del tavolo da lavoro, pinze in plastica e strumenti vari. Vari spaghi tesi tra una parete e l’altra, appesi con mollette da bucato dei negativi e delle stampe messe ad asciugare.
Una vecchia credenza, sui ripiani scatole di cartone con la scritta Ilford, Agfa.
E’ qui che si compie la “magia”. Luce, alchimia, e passione.
Questa era la mia piccola camera oscura di tanti, tanti anni fa.

Ero un ragazzino con una grande passione per la fotografia, oggi ancor più consolidata.
Fin da piccolo, guardando i libri fotografici che riposavano nelle librerie di casa, mi era scattato qualcosa dentro. Poi mio padre mi regalò una sua vecchia macchina fotografica a pozzetto, una RicohFlex 6x6, me la ricordo ancora benissimo.
Abitavo a Firenze, rione di San Frediano, zona popolare, botteghe di artigiani e restauratori.
Lì ho cominciato a scattare le prime foto, in giro per i vicoli.
Ricordo ancora gli odori di colla, vernici e legno; difficile dimenticare gli odori, si depositano nell’anima.
E così ho cominciato a sviluppare i miei negativi in bianco e nero e stamparli. Quanti errori le prime volte e che gioia quando riuscivo a stampare bene e vedere quello che avevo fotografato. Poi la tecnica si è affinata e gli errori sono molto diminuiti.
Ho cominciato con le sperimentazioni, a farmi gli sviluppi per i negativi e le stampe; più contrasto, meno contrasto, morbidezza dei grigi, neri saturi, dalla grana di stampa finissima alla grossa, che divertimento, quanta esperienza.
Altre macchine fotografiche mi sono passate fra le mani, stessa passione. Poi è arrivato il digitale, ma questo è un altro fotografare.
Ma solo chi ha provato l’analogico, chi si è macchiato le dita di sviluppo, chi ha respirato i vapori di acido acetico del fissaggio, chi ha visto apparire l’immagine su un cartoncino bianco può capire lo stupore e la bellezza della fotografia.
L’occhio vede il soggetto e lo scatto lo blocca sulla pellicola, poi i tuoi occhi e la tua mente devono immaginare il positivo da una immagine negativa proiettata in rosso sulla carta, non facile; ma è con lo sviluppo della stampa che arriva la meraviglia, immagine prima evanescente poi solida, ed è allora che noti i particolari che all’inizio l’occhio non aveva focalizzato.
Magia, pura magia.

E come la stampa fotografica per me è stata magia leggere questo libro di Manuel, il soggetto è la fotografia e tutto intorno i particolari, le ricche e documentate citazioni, l’analisi approfondita e variegata dell’arte fotografica perché di arte si tratta; un approccio diretto e filosofico.
Si parla dei grandi fotografi, tanti gli argomenti trattati dalla foto giornalistica, al reportage di guerra, alla foto artistica ecc. e tutte le sue forme e ramificazioni e sempre in modo chiaro, approfondito ed esaustivo perché la fotografia non è un semplice click ma è qualcosa di più profondo, che bisogna saper leggere ed interpretare.
Nella foto non c’è solo l’immagine ma anche il pensiero e l’emozione che il fotografo vuole trasmettere, il tutto in una infinitesima particella di tempo... click.

La fotografia è emozione.

Ricordo ancora con un brivido, dopo anni, la mostra fotografica al Forte di Bard dedicata a Bert Stern e alle sue foto di Marilyn Monroe.
A parte le bellissime foto, - fu uno shooting molto privato con solo lui e lei in una camera di albergo, dopo pochi mesi Marilyn morì - ce ne fu una che mi colpì come un treno in corsa: una gigantografia in fondo al corridoio, a parete intera. Marilyn era fotografata a mezzo busto, nuda e senza veli, un po’ arruffata con le prime rughe sul viso, lo sguardo malinconico appannato da un po’ troppo alcol, la pelle non più tonica ed un sorriso triste appena accennato.
In questa foto ho visto la “bellezza” pura, crudele e adamantina.
Una emozione incredibile. Uno scatto incredibile.
Se Stern voleva comunicare quel sentimento con me ci è riuscito in pieno, sono rimasto impietrito davanti a quella foto per dei minuti, e mi ha commosso.
E’ quello che ho cercato, e trovato, in questo libro: una spiegazione alle sensazioni che da la fotografia.




questa è una delle mie prime foto: Mariuccia di borgo San Frediano


FOTOGRAFIE     a questo link potete aprire il libro con le mie fotografie

Prefazione per "26 istanti prima"

Questa è la prefazione che ho scritto per il libro di poesie "26 istanti prima" di Manuel Omar Triscari 

Nella smorfia il numero 26 corrisponde ad un nome di donna: Nanninella o Anna, considerata protettrice delle donne; In numerologia il 2 in particolare è simbolo di dualità e di equilibrio, il 6 indica invece l’amore, il nutrimento, lo sviluppo, la cura della famiglia e degli affetti (ma nello stesso tempo anche la trasgressione legata all’ascolto dei propri impulsi); in latino è il viginti sex, è un numero pari, è un numero semi-primo, è un numero omirpimes, è un numero non-totiente, è un numero di Ulam... Il 26 è tante cose, per me da oggi è anche un bel libro di poesie di Manuel Omar Triscari.

26 istanti prima, che bel titolo! L’istante si può quantificare in una linea temporale? È un istante, un attimo, un lampo, un click fotografico. Ma io posso prendere questi 26 istanti e dilatarli nel tempo a mio piacimento e farli durare anche minuti, ore.

Tutto il tempo che mi serve e di cui ho bisogno per leggere, assaporare e metabolizzare questi 26 quadri dipinti da Manuel con i colori profondi ed intensi della sua anima e le quasi impercettibili immagini della bella Memunatu. Pennellate feroci e leggeri acquarelli.

Devo creare la giusta prospettiva per gustarmi questo suo libro: accendo il fuoco nel caminetto, in sottofondo la calda voce di Sarah Vaughan, il gatto sonnacchioso sulle ginocchia mi guarda mefistofelico, un bicchiere di brandy sul tavolino, la mia poltrona... ora sì che si crea la giusta sinfonia di piaceri! 

Apro il libro...       


<<il giorno in cui ti conobbi tacquero anche gli aironi e i gabbiani

e ovunque era silenzio e dura la pietra...>>


Una pagina dopo l’altra, leggendo con calma, assaporando ogni parola. Profondo ed immaginifico. Come nello script di un bravo sceneggiatore, tra le sue righe, mi proietto le immagini nella mente: è anche questo lo scopo della sua poesia.

26 lunghi, caldi, piacevoli istanti prima: scusatemi, ma ora ho da fare... 


Dicembre 2020





LA MIA PRIMA VERA PRIMAVERA (ricordi che riaffiorano dal profondo)



Aprile. Inizia la primavera, la mia prima vera primavera dopo quella incarognita passata chiuso in casa in una città completamente spenta per pandemia.
Una tortura per me che sono un tipo da campagna. Io e mia moglie abbiamo anche una casetta in campagna, il nostro "buen retiro", dove lei era rimasta bloccata da inizio marzo causa divieti. Io in città ad impazzire.
Alla fine di aprile me ne sono fottuto dei divieti ho preso il pullman e l’ho raggiunta in campagna. Finalmente aria, verde, boschi ed il silenzio rumoroso della natura di cui purtroppo ho goduto poco all’inizio data la rabbia e la frustrazione che mi tenevo dentro e che ci hanno messo un po’ a decantarsi, mi sono ripreso in estate.
La primavera con i suoi incredibili odori e profumi! ed io che sono un “nasale” spesso mi fermo ad annusare l’aria come farebbe un animale: chiudo gli occhi, mi inebrio e ne cerco la fonte.

Ieri pomeriggio, col sole che stava calando e la brezza che si calmava, il momento in cui i profumi della natura si esaltano, mi è arrivato fortissimo il profumo dei fiori di un albero di alloro che abbiamo in giardino. Ho chiuso gli occhi e mi sono lasciato sedurre da questo odore particolare che mi ha fatto riemergere il ricordo dell’odore delle mesticherie di quando ero bambino, a Firenze: un misto di odori di detersivi, sapone di Marsiglia e altre cose non ben precisate. Un odore che non ho mai più ritrovato crescendo.

Infatti, grazie alla nostra memoria olfattiva, possediamo una sorprendente capacità di rievocare con estrema nitidezza un’esperienza passata, anche profondamente sopita nella nostra mente, quando entriamo in contatto con un determinato odore.
Sebbene l’olfatto sia forse il più enigmatico dei nostri sensi, esso è quello che incide maggiormente sul nostro inconscio.
Ricordare vividamente un’esperienza dopo aver avvertito un determinato odore è un fenomeno estremamente comune e affascinante definito “Sindrome di Proust”.
L’origine del nome deriva dal celebre scrittore Marcel Proust, autore de “Alla ricerca del tempo perduto”, il primo che descrisse un evento simile. Il protagonista, ormai adulto, dopo aver odorato e assaporato un particolare tipo di biscotto detto Madeleine, sprofonda nel suo passato, riportando alla memoria eventi della sua infanzia ormai dimenticata.
Questa memoria involontaria, questo viaggio a ritroso che esula dalla nostra consapevolezza, è il solo ed unico modo – secondo Proust – per riappropriarsi della vera essenza del proprio passato. L’area del cervello che elabora l’esperienza olfattiva è collegata al sistema limbico, direttamente connesso alle nostre emozioni (amigdala) e alla nostra memoria (ippocampo). Ecco perché ricordi evocati da un profumo sono così vividi e immediati.

Questo ricordo odoroso me ne ha scatenati tutta una serie di quel periodo, di quando ero bambino, tutti abbinati ad una serie di profumi. Arrivano come onde e riemergono dal passato vividi e colorati.
Adoro la primavera, da bambino con i primi tepori, impazzivo di gioia ed il parco, il bosco ed i prati di dove abitavo erano tutti miei.
Sono nato a Milano nel ’56 ma i miei genitori si trasferirono a Firenze alcuni mesi dopo la mia nascita per motivi di lavoro, e mio padre, che nel dopoguerra aveva ottenuto una discreta agiatezza, scelse una abitazione adeguata al suo stile di vita: un bell’appartamento grande ricavato dalle ex scuderie di Villa Strozzi costruite nel ‘500, sul cucuzzolo della collina Monte Uliveto “il Boschetto”, circondato da un bel parco, boschi e prati.
Via Pisana 83A, ancora mi ricordo il numero civico, poco distante dal centro storico d’oltrArno.
Un posto magico e bellissimo per un bambino con un unico difetto: ero da solo.
I miei genitori, per vari motivi erano sempre assenti, e mia sorella, più giovane di me, faceva la sorella, interessata molto alle sue bambole e poco a giocare con me. Per cui tutta la mia fanciullezza l’ho passata in mezzo alla natura, agli alberi, ai prati.
E’ da questo periodo che sono riemersi i ricordi, non tutti, alcuni sono ancora nascosti, altri sono svaniti. Ma quelli che descriverò sono fortissimi, ancora ricchi di emozioni anche se di alcuni è difficile trovarne le parole giuste.


Ricordo…. Il bosso e l’alloro
L’odore delle siepi di bosso e di alloro quando sono scaldate dal sole per me è qualcosa di speciale. Il parco intorno a casa mia ne era pieno, delimitavano le varie proprietà o dei piccoli giardini ombrosi e nascosti con piccole fontane, statue e sedute dove potersi rilassare e godere del silenzio del vento che parla tra le fronde degli alberi e del cinguettare degli uccellini.
In una di queste siepi di bosso, lontano dagli sguardi, mi ero costruito un rifugio dove amavo nascondermi quando a casa le cose si mettevano male.
Era una siepe grossa e profumata, infilandomi dentro e rompendo dei rami mi ero ricavato uno spazio dove potevo stare comodamente seduto, era il mio fortino, la mia tana.
Quando avevo 11 anni ci portai una amichetta di mia sorella che abitava fuori dal parco, erano compagne di scuola, bellissima ragazzina riccia bionda, Francesca B. Le diedi il mio primo, innocente bacio… e chi se lo scorda!
Con il sole e l’aria tiepida il bosso emanava un profumo forte che ancora oggi, quando lo sento nelle rare siepi qui al nord, mi fa sorridere e mi rievoca quella fortissima emozione.


Ricordo… La limonaia
Sotto casa nostra, vicino al prato più grande, c’era una grande limonaia, anche questa del ‘500. Bellissima costruzione, palladiana, con possenti colonne. Per un motivo che non ricordo una notte prese fuoco ed il giorno dopo, spento l’incendio dai pompieri, rimasero in piedi solo le possenti mura e colonne ed un mucchio di macerie all’interno. Il tetto, in grosse travi di legno e tegole, bruciò e crollò all’interno della limonaia insieme a tutti i vetri. Delle piante di limoni non rimasero che alcuni grossi vasi di terracotta bruciacchiati. Il ricordo dell’odore del legno bruciato è fortissimo ancora oggi.
Con l’imprudenza di quando si è ragazzini spesso mi aggiravo in quelle macerie, col rischio di farmi davvero male in mezzo a tutti quei vetri rotti, alla ricerca dei vecchi chiodoni di ferro battuto, di quelli quadrati, grossi e lunghi, fatti a mano dai fabbri di allora, che tenevano insieme le travi. Molti erano contorti e mezzi fusi dal calore, ma quando ne trovavo qualcuno ancora integro passavo il mio tempo con una pietra a raddrizzarli. Ne avevo collezionati un bel po’. Quando sento l’odore di legna bruciata mi torna spesso in mente questo ricordo


Ricordo… La magnolia
Di fronte alla limonaia, vicino alla strada di terra battuta che si addentrava nel parco, agli inizi del pratone, c’era una grande magnolia, o almeno sembrava enorme a me ragazzino, quando tutto sembra grande dove spesso mi divertivo ad arrampicarmi. Un ramo in particolare, quasi orizzontale, era il mio preferito, mi ci sedevo a cavalcioni a pensare chissà quali avventure. O mi lasciavo penzolare tenendomi con le mani, era ad un paio di metri d’altezza, per poi lasciarmi cadere nel prato.
Era un altro dei miei rifugi preferiti e spesso salivo fino in cima, nascosto dalla folta chioma. Quando la magnolia fioriva in primavera ci passavo ore in mezzo ai suoi rami, stordito dal profumo inebriante dei suoi bianchi fiori, che però duravano troppo poco.


Ricordo… L’erba ed i fiori di campo
Sempre davanti alla limonaia c’era uno dei più grandi prati della villa, per me il più bello, anche perché uno dei pochi in piano.
Ci ho passato ore ed ore lì in mezzo, steso in mezzo ai fiori e all’erba, osservando le nuvole e le loro forme per trovarci esseri favolosi, animali e cose. Le api mi ronzavano intorno ma io non le temevo.
Ho un vivido e fortissimo ricordo di quel prato. Era lasciato incolto ed in primavera era un'esplosione di fiori di campo, mille colori e mille odori: primule, tulipani, crochi, fresie, margherite, camomilla e di infiniti altri. Da casa scendevo lungo la strada sterrata, poi mi toglievo le scarpe e mi abbandonavo a sfrenate corse in mezzo all’erba.
Coi pantaloncini corti avevo sempre le gambe tagliuzzate dall’erba alta e c’erano dei fiori particolari, a forma di grappolo di palline blu - non so il nome - che emettevano una specie di schiumetta la quale correndo mi imbrattava le gambe piene di graffi facendoli prudere in modo insopportabile; e più mi grattavo e più prudeva, ma che gioia!
Quello che più mi ha colpito allora come odore nelle mie sfrenate corse era quello dell’erba che calpestavo, il loglio e l’erba fienarola principalmente, un odore acidulo acuto, forte ed intenso, che mi avvolgeva. Lo respiravo a pieni polmoni, tra il ronzare degli insetti.
Ero veramente felice.
A volte, ancora oggi, quando tagliano l’erba del nostro terreno qui in campagna, lo sento ed istantaneamente mi ritornano in mente quelle immagini, e la voglia di togliermi la scarpe e di camminare a piedi nudi nell’erba è forte come allora. E’ una sensazione indescrivibile.


Ricordo… Le foglie di quercia, i ciclamini ed i funghi
Nel parco c’era una zona che da bambino ritenevo magica, tenebrosa e piena di segreti. Ovunque erano prati e spazi aperti, poi c’era questo posto: un lungo tunnel oscuro creato da due filari di enormi ed antiche querce che non facevano filtrare la luce del sole. Un odoroso tappeto di foglie umide e decomposte, di ghiande di cui erano ghiotti i tanti merli.
Anche questo è un odore molto radicato nella mia memoria. Quando ci entravo ero sempre un po’ timoroso se non impaurito. Se non c’era il cinguettare degli uccellini il silenzio era inquietante. Ed io mi immaginavo storie orrorifiche specialmente se ci passavo all’imbrunire o in autunno con la nebbia, sempre con un bastone in mano brandito come se fosse una spada magica con cui difendermi dai vari mostri che sarebbero usciti sicuramente da dietro gli enormi tronchi…
Da un lato il pendio della collina e dall’altro lato un muraglione in pietra che divideva la proprietà dal resto del mondo. In fondo una balconata di granito con ai lati due scalinate curve che portano ad un terrazzo sottostante ed altre scalinate.
Ai lati di queste due scalinate c’erano due grandi statue di faraoni egizi e due leoni accovacciati in terracotta che, per la mia inarrestabile fantasia facevano da guardiani a questo lungo antro oscuro pieno di misteri e magie.
L’unica nota di colore in questo percorso in poco bianco e molto nero erano, quando era stagione, i fiori di ciclamino e le piantine di fragoline selvatiche che raccoglievo e mangiavo subito.
Anche il profumo delle fragoline selvatiche è uno degli odori della mia infanzia che ancora oggi mi evoca ricordi. E quello dei finferli, funghetti gialli che tra il fogliame marcio e umido crescevano copiosi, buonissimi da mangiare, che poi portavo a Tina, la collaboratrice domestica che praticamente mi ha cresciuto in quegli anni.
Tina, tracagnotta e sinceramente bruttina, ma uno sguardo dolcissimo, con un cuore grande così ed una voce roca e scura che quando mi cantava canzoncine degli anni '50 mentre mi faceva il bagno mi incantava e le chiedevo sempre di cantarne ancora ed ancora.
L'odore di Tina: un lieve odore di sudore perché sgobbava come un mulo, il camice che odorava di sapone di Marsiglia e l'alito di mentine e sempre, sempre, un sorriso.


Ricordo… Le siepi di rose
Dalla limonaia la strada sterrata coperta di brecciolino proseguiva per qualche centinaio di metri con, da un lato, una lunga aiuola dove c’erano dei grandi cespugli di rose, di tutti i colori che in tarda primavera, quando fiorivano emanavano fortissimi profumi di cui ero inebriato. Quanto tempo passavo ad annusarle!
Ogni cespuglio con un profumo diverso, intenso o delicato, caldo o avvolgente, le respiravo fino a stordirmi. A volte al centro del fiore trovavo un maggiolino, di quelli color verde dorato con quella lucentezza metallizzata. Allora ne prendevo uno, legavo ad una sua zampina un lungo filo di cotone da cucito e lo libravo nell’aria. Lo so, può sembrare una crudeltà anche perchè dopo un po’ o cadeva a terra sfinito dal volo con cui cercava di sfuggirmi o perdeva la zampina, libero ma mutilato, ma allora da ragazzini non c’erano tutti i fanatismi da ambientalismo odierni.
Negli anni ‘60 eravamo un bel po’ diversi. Comunque per me le rose rimangono un fiore dal profumo pieno di sfumature.


Ricordo… I gerani, i garofanini ed i cipressi
Altro profumo entrato nel mio DNA quello dei cipressi, dei gerani e dei garofanini.
I cipressi fanno parte integrante del panorama toscano. Intorno alla mia casa c’era un grande terrazzo da dove spuntavano dei bellissimi cipressi, alti e dritti verso il cielo e odorosi di resina e se ne stropicciavo le foglioline liberavano un profumo incredibile, col caldo del sole poi davano il massimo con la resina che si scioglieva e colava lungo il tronco ed io la raccoglievo con dei bastoncini e la portavo al naso per assaporarne tutte le sfumature.
Dietro casa, dove c’era la cucina, in uno spiazzo di terra battuta dove giocavo e facevo epiche battaglie con i soldatini di plastica, un enorme cipresso, diverso dagli altri perché ad ombrello invece che sottile e slanciato, produceva quantità notevoli di resina profumatissima con cui mi incollavo inesorabilmente le mani che, con la terra che toccavo creavano uno strato orrendo e difficilissimo da togliere se non con la trementina.
Poi, quando era stagione, dai rami più bassi raccoglievo le sue pignette, le gazzozzole, dure come sassi che schiacciavo con una pietra per annusarne il forte profumo. Lo faccio ancora oggi quando trovo un cipresso, come un riflesso pavloviano, per ricordarmi di quando ero bambino e decisamente più puro.
Lungo il terrazzo c’era anche un muretto che lo delimitava dove qualche decina di vasi pieni di gerani facevano la loro bella figura. Rossi, rosa e bianchi, con le verdi foglie grasse e cicciolose che bastava sfregarle tra le dita perché emanassero i loro effluvi.
Alternati ai gerani i vasi con i garofanini dal profumo intenso e dolcissimo, leggermente piccante. Tutti gli anni, quando fiorivano, spostavo i vasi di quelli più profumati di fronte alla finestra della mia cameretta per sentirne l’odore quando facevo i compiti o steso sul letto leggevo qualche libro o fumetto.


Ricordo… Il concime, i piselli, Nonno Gigi

Per gestire tutto questo verde c’era un personaggio per me mitico che io chiamavo Nonno Gigi. Lui e sua moglie Elvira erano anziani e vivevano nella casetta dei custodi all’inizio della tenuta dove c’era il grande cancello di ingresso.
Erano contadini.
Lui magro, secco e nodoso come un ramo di olivo, con una benda nera sull’occhio sinistro perso in guerra, mi voleva bene. Quando lo trovavo in giro per il parco stavo sempre appiccicato a lui che mi raccontava storie fantastiche di cose che capivo poco, di Africa, di guerra, di tedeschi e di prigionia. Ero affascinato.
Lei una vecchina piccola, raggrinzita e piegata dal peso dei lavori e dalla vita, aveva dei bellissimi occhi azzurri. Sulla credenza, di un bianco vecchio ed ammaccato c'era una foto di loro due da giovani, lei era piccolina ma molto bella.
Nonno Gigi era riuscito a strappare alla contessa Gambinossi, cicciona e stronzissima proprietaria della tenuta, di utilizzare un pezzetto di terra in cima alla collina per farci un orto che lui curava con amore e dedizione incrollabile. Spesso mi ci portava e mi spiegava i vari ortaggi, come si curano e come si tratta la terra.
Di quel posto mi sono rimaste impresse in modo indelebile alcune cose: il profumo dei fiori di pisello ed il dolcissimo sapore dei piselli che lui coltivava, appena colti e sbucciati che mi dava con un sorriso sdentato e la gentilezza del suo unico occhio; l’odore potente di merda che usciva da un orcio che usava come concimaia e dove metteva dentro le deiezioni delle galline, della capretta e dei conigli che custodiva nel retro della sua casetta e che diluiva con l’acqua piovana. Lo raccoglieva con un annaffiatoio tutto rugginoso e scassato e poi ci concimava i suoi ortaggi. A volte dava a me questo compito, ma io non ero molto contento, specialmente d’estate l’odore di merda fermentata era veramente feroce.
Ricordo benissimo anche l’odore del pecorino, del pane e del vino di cui mi dava dei piccoli pezzetti e un piccolo sorso, quando si fermava a riposare ed a rifocillarsi.
Grande Nonno Gigi, un animo gentile innamorato della natura e del suo orto.
Altra cosa che non potrò mai dimenticare di quel piccolo angolo di paradiso è il prato che da lì scendeva lungo la collina, in tarda primavera e inizio estate una colata di papaveri rossi e fiordalisi blu e tante tante farfalle colorate che sembravano altri fiori dai mille colori senza stelo che si libravano nell’aria, che spettacolo!


Ricordo… Elvira e Gigi, la casetta dei custodi
Erano altri tempi, i bambini di allora, me compreso, erano molto più svegli e maturi, non ci faceva paura niente.
Io per andare a scuola, elementari e medie, dovevo attraversare tutto il bosco, che come percorso era più veloce e corto della lunga strada sterrata che portava all’ingresso principale dove sarebbe passato il pulmino che mi avrebbe raccolto per portarmi a destinazione.
In primavera ed estate nessun problema, era bello la mattina ed il pomeriggio al ritorno fare quel percorso nell’aria frizzante e profumata. Ma in autunno, e specialmente in inverno al buio e col freddo che ti spellava la faccia e che ti faceva sentire infinitamente pesante la cartella sulle spalle, era veramente una cosa che mi metteva alla prova. Anche lo stare ad aspettare per parecchio tempo il pulmino al gelo era duro.
Spesso e volentieri Nonno Gigi e Nonna Elvira, i custodi, vedendomi intirizzito, si intenerivano e nelle mattinate più fredde mi facevano entrare nella loro casetta per non congelare.
Anche qui odori e profumi indimenticabili.
Casetta di pietra e legno piccola e modestissima ma calda ed accogliente con le mura che avrebbero potuto raccontare storie di vite vissute.
Ricordo le assi di legno del pavimento scricchiolanti e la vecchissima cucina economica a legna, col piano in ghisa arroventato, unica fonte di calore per tutta la casetta.
L’odore di legna bruciata, a volte di carbone, il bollitore che borbottava ed il bicchiere di latte caldo e odoroso che Nonna Elvira mi dava per scaldarmi; era latte buono, grasso e denso che ti lasciava un buon sapore in bocca, mica quei troiai asettici che ci propinano oggi, più simili ad acqua sporca che a quel latte buonissimo.
Intanto Nonno Gigi stava davanti alla finestrella che dava sulla strada fumandosi la sua nazionale senza filtro e quando vedeva arrivare il pulmino, un Fiat 850 blu tutto scassato, lo ricordo ancora, mi dava una tenera arruffata ai capelli e mi faceva uscire.
Grazie Gigi ed Elvira, per il calore, e non solo per quello della stufa.


Ricordo… Le ninfee nel laghetto di Villa Strozzi
Un altro profumo che mi fa tornare in mente dei ricordi di quel periodo a tinte acquarello è quello delicatissimo delle ninfee.
Di fronte a Villa Strozzi c’era una bella fontana in mezzo ad un piccolo laghetto, con un putto di marmo bianco che teneva in mano una brocca da cui sgorgava l’acqua. Lo specchio d’acqua era quasi del tutto coperto da ninfee ed era popolato da molti pesci rossi.
Ci ho passato ore appoggiato ai bordi del laghetto a vedere i pesci che tranquilli nuotavano. Uno dei miei divertimenti era tirare dei sassolini sulle foglie galleggianti per vedere se sotto si nascondevano dei pesci.
Ma il momento più bello era quando le ninfee fiorivano ed il laghetto si trasformava in una tavolozza da pittore dove i colori erano il verde e tutte le sfumature di rosa, di violetto e di bianco. Mi sporgevo dal muretto per odorare questi fiori che avevano un profumo molto delicato, a volte mi accompagnava anche mia sorella, più piccola di me di un paio di anni, che si divertiva a giocare con l’acqua e ovviamente una volta ci finì dentro, la riportai a casa tutta bagnata e la sera mi presi una notevole lisciata a suon di scappellotti per non aver impedito questa “immane tragedia”.


Ricordo… Colle e vernici del laboratorio di restauro
Le scuderie, riadattate ad appartamenti, erano una struttura a ferro di cavallo di due piani dove una parte non era occupata, il resto era abitato da tre coppie senza figli, sopra di noi due sorelle inglesi quasi centenarie e simpaticissime che parlavano come Stanlio e da un laboratorio dove restauravano quadri e producevano cornici in legno dorate antichizzate.
Qualche volta i due artigiani che ci lavoravano mi chiamavano dentro dato che mi vedevano sempre solo e molto incuriosito del loro lavoro.
Entrando nel loro laboratorio ero colpito da una quantità di odori molto forti: vernici, colori ad olio, solventi, olii vari, diluenti e chimica a me sconosciuta. La cosa che mi affascinava di più era quando ricoprivano le cornici in legno grezzo con le sottilissime ed impalpabili sfoglie di oro zecchino e poi antichizzate con delle tecniche particolari.
A volte mi davano qualche piccolissimo frammento di queste sfoglie, per me era come avere tra le dita un tesoro inestimabile, era oro vero, e anche se erano frammenti di neanche un centimetro per me avevano un enorme valore.
Altre volte mi sedevo su uno sgabello accanto ad uno degli artigiani, più un artista direi adesso, che si occupava dei restauri. Niente di che, non erano certo dei quadri di valore, ma il vedere questo ragazzo che con calma certosina miscelava i colori ad olio per poi con il pennellino correggere i guasti al dipinto mi teneva con gli occhi incollati alle sue mani.
Mestieri ormai persi.


Ricordo… Benzina e sangue
Non ricordo l’anno preciso ma ero forse in seconda o terza elementare.
Era quasi estate ed io stavo aspettando il pulmino che mi avrebbe preso per portarmi a scuola.
Me ne stavo seduto su una specie di “panettone” di pietra vicino al cancello guardando il traffico intenso sulla via Pisana davanti a me. Allora le macchine non erano le decine e decine di modelli e marche come oggi, più che altro erano FIAT 500, 600, 1100, qualche Lancia e tanti rumorosissimi camioncini.
Ad un certo punto una 500, rossa, forse per un guasto meccanico invade la corsia opposta e si scontra violentemente e frontalmente con una 1100 grigia. Un botto incredibile! Vetri e rottami ovunque.
Io rimasi paralizzato dalla paura e dallo spavento. Il conducente del 1100, incolume, scese dalla macchina per portare aiuto alla ragazza che guidava la 500 e che era rimasta intrappolata nelle lamiere contorte.
Insieme ad altri automobilisti che si erano fermati riuscì ad estrarre la ragazza che si lamentava dal dolore e semi paralizzata dallo spavento. La fecero sedere sul marciapiede vicino a dove ero io mentre Nonno Gigi, il custode, chiamava l’ambulanza.
La ragazza era conciata proprio male o così mi sembrava, aveva dei profondi tagli sulla testa che sanguinavano copiosamente ed aveva tutta la faccia e le mani imbrattate di sangue. Ecco, di questo episodio ricordo l’odore del sangue, metallico, e quello della benzina che colava dal serbatoio della 500.
Era la prima volta che assistevo ad un scena di violenza così forte e per un paio di giorni ne rimasi stravolto.


Ricordo… Il negozio di giocattoli, cinema Universale, piazza Pier Vettori
Anche se ero un bambino avevo molta libertà. Un po’ perché allora non c’erano tutte le paure e le ansie di oggi, un po’ perché i miei genitori erano praticamente inesistenti e poi perché io mi sentivo “grande”.
Avevo una grande passione per il modellismo, specialmente quello per gli aerei della seconda guerra mondiale, che tra l’altro non era da tanti anni che era finita e a Firenze, specialmente nelle zone fuori dal centro storico, se ne vedevano ancora i segni e le ferite sulle case e su qualche palazzo ancora da rimettere a posto.
Quando riuscivo ad avere qualche soldino o riuscivo a fregare dal salvadanaio di mia sorelle qualche moneta scendevo in città ed a piedi percorrevo la via Pisana, attraversavo i giardinetti di Piazza Pier Vettori, che allora erano molto belli, con tanti alberi e siepi e panchine e mi dirigevo a passo veloce verso il cinema Universale - in quel periodo andavano forte i film cosiddetti “peplum” con Ercole, Maciste e antichi romani - dove accanto, subito dopo, c’era il mio paradiso: un negozio di giocattoli che aveva un sacco di scatole di montaggio di aerei, di navi da guerra e di carri armati.
Avrei voluto viverci la dentro!
Mi luccicavano gli occhi davanti alla piccola vetrina. Il titolare, che mi conosceva, mi lasciava prendere in mano tutte le scatole e le buste che io, indeciso, guardavo cercando di scegliere con la voglia di prenderle tutte. Ma le monetine erano poche e più di un modellino e di un paio di barattolini di vernice per colorarli non riuscivo a prendere.
E poi aveva una cassettiera tutta divisa in scomparti dove teneva una quantità immensa di soldatini, quelli piccoli di plastica morbida verde e marrone che compravo insieme alle miccette - piccoli petardi - per poi correre a casa dove facevo delle battaglie che duravano ore nello spiazzo in terra battuta dietro dove c’era la cucina.
Avevo anche un paio di cannoncini a molla di metallo con i quali tiravo le miccette in mezzo ai plotoni di soldatini schierati, delle vere stragi con i nemici che saltavano in aria e che spesso perdevo in mezzo alle foglie.
Odore di plastica, colle e vernici per modellismo, e di polvere nera delle miccette… questo mi è rimasto nella mente.


Ricordo… San Frediano, il lampredotto
A volte mi avventuravo ben oltre il negozio di giocattoli, in direzione di Porta San Frediano.
Allora si poteva, traffico ce n'era poco ed i ragazzini giocavano per strada o nei cortili.
C'era vita.
Qui, poco prima di attraversare la grande porta in pietra c’era una piazzetta dove stazionava sempre un camioncino che vendeva panini con la trippa e lampredotto, una prelibatezza! Sempre molto affollato dato che i panini erano veramente buoni; se mi avanzava qualche soldino era una tappa irrinunciabile anche per me.
Odore intenso di brodo fumante, trippa, prezzemolo, pepe e vino rosso e nazionali senza filtro o sigari toscani, il tutto esaltato da un sonoro vocio costante, si parlava della Fiorentina, di passera e bestemmie colorite come se piovesse.
Il quartiere di San Frediano era un rione di popolani, operai ed artigiani, gente grezza ma sincera ed il camioncino della trippa una vera istituzione.
Ora, purtroppo, non è più così.
Qualche volta proseguivo oltre Porta San Frediano, proprio nel cuore del borgo che era pieno di piccole botteghe e laboratori di falegnameria e restauratori di mobili e fabbri.
Vie strette e vicoli bui e umidi, con poco sole, tutto l’ambiente permeato da effluvi di legni, resine, colle, ferro surriscaldato e carbone, con questi antri scuri e odorosi illuminati da luci fioche dove artigiani bravissimi lavoravano il legno ed il ferro.
Rumore di pialle, martelli e colpi sull’incudine. Adesso tutto questo non c’è più, un vero peccato. Era molto bello, molto vero, molto umano.
La vita era in strada e nei cortili i ragazzini giocavano allegri e spensierati, la gente era laboriosa e semplice, le donne spettegolavano sull’uscio delle case.
Macchine poche, giravano ancora i carretti tirati da stanchi cavalli e spesso a tutti gli odori della vita intorno si mescolava anche quello pestifero della merda di cavallo.
Difficile scordarsi quelle immagini e quegli odori


Ricordo… L’alluvione
Ma l’odore che più ho sepolto profondamente e radicato nel mio cervello è quello dell’alluvione.
4 novembre 1966… e chi se lo dimentica più.
Avevo 10 anni. Abitando in una zona sopraelevata casa nostra non fu colpita ma i magazzini e gli uffici di mio padre, che erano a Porta a Prato, vennero sommersi da tre metri di fango.
Mio padre, che a quei tempi era un famoso radioamatore, insieme ad altri suoi amici avevano creato da casa nostra dei ponti radio con la polizia, carabinieri, esercito e ospedali per organizzare i primi soccorsi dato che in città le comunicazioni erano collassate.
Mancava la luce ed io, ragazzino, ero l’addetto al gruppo elettrogeno che era stato messo nel terrazzo di casa, stavo sempre pronto con la tanica della benzina per permettere a mio padre ed i suoi sodali con le radio di mantenere i collegamenti ed i primi aiuti.
Dopo circa una settimana, quando non c’era più l’emergenza dei primi soccorsi e l’Arno si era ritirato sono andato con mio padre nei suoi magazzini per vedere cosa era successo e per dare una mano.
Si sono visti poi decine di filmati, documentari e quant’altro sull’alluvione di Firenze, ma posso garantire che solo chi l’ha vissuta in prima persona può forse descriverla, dico forse perché l’immagine di quella immane tragedia sinceramente è difficile da descrivere.
C’era un silenzio spettrale a parte le sirene delle ambulanze e dei pompieri; la gente si muoveva come automi, in silenzio, o piangendo sommessamente. Tutti con in mano una pala, un secchio, un catino, una scopa, qualsiasi cosa fosse utile per raccogliere quella mortifera melma.
Piramidi di macchine distrutte ed accatastate ovunque, macerie. Nei magazzini di mio padre c’era più di mezzo metro di fango e detriti vari, praticamente mi arrivava alla cintola dei pantaloni. Per giorni e giorni con attrezzi di fortuna abbiamo spalato via il fango, sembrava non finisse mai. Come non finiva mai, anzi aumentava il puzzo.
Ecco, di quel momento una cosa che si è saldata nei miei ricordi è l’odore, tremendo. Difficile, se non impossibile, da descrivere: un misto di fango, benzina, gasolio, merda, fogna, olio, chimica, animali in putrefazione e chissà quant’altro.
Un puzzo che si attaccava addosso in modo morboso; potevi lavarti e lavarti in continuazione ma non andava via.
Ce n’è voluto di tempo per tornare alla normalità. Tutto passa ed il tempo addolcisce gli spigoli dei ricordi ma quell’odore, quell’odore, non lo potrò mai più dimenticare.

Adesso nulla è più come nei miei ricordi, la modernità ha cancellato e devastato tutto.
Villa Strozzi è diventata un luogo di convegni e sfilate. Le scuderie, casa mia, sono diventate un istituto di design per fighetti ed un bistrò e la limonaia, completamente rifatta e con orrende aggiunte moderne è diventata un posto sciccoso da aperitivi, eventi e manifestazioni per giovani rampanti e facoltosi. Il parco è stato stravolto, modificato, mutilato, ferito ed aperto al pubblico, l'orto di Nonno Gigi sparito, la galleria buia delle querce non c'è più, abbattute. Anche Firenze è cambiata, molto, sicuramente più becera ed insolente, come imposto dai nostri tempi moderni.
E' per questo, forse, che esistono i ricordi.





PENSIERI, ALIENAZIONE E MUSICA

(diario personale di una giornata chiuso in casa per il COVID, metà aprile 2020)



40 passi. Ci sono 40 passi tra la porta di ingresso e quella del bagno.

Questo è il percorso che faccio tutti i giorni per almeno una buona mezz’ora, e forse più.

Avanti e indietro, automatico, inesorabile. Devo farlo, in questi mesi di prigionia, per non

perdere l’uso delle gambe e della mente. Per muovermi. Giornate senza un inizio ne

una fine.


Ed è alienante.


Avanti e indietro. Come un pendolo.

Sulla porta di ingresso ho attaccato un foglio ed una matita. Ogni percorso una

stanghetta, ogni 10 stanghette un segno in diagonale che le cancella. Come nella

iconografia carceraria.

Ho la fortuna di avere una casa grande. Ma il vecchio proprietario, un regista famoso,

diede la ristrutturazione in mano ad un architetto che sicuramente in gioventù aveva

fatto abuso di sostanze allucinogene e ha creato questa serie di open space contigui;

niente porte, solo archi. Stanza dopo stanza.

40 passi avanti, 40 passi indietro. Ogni giorno, ogni maledetto giorno.

E’ più di un mese che sono chiuso in casa, è sempre più dura sopportare; e la carogna sta salendo. Inesorabile.


23… 24… 25…


Mia moglie è in campagna, beata lei. Abbiamo una casetta in mezzo al verde ed ai

boschi sulle colline a pochi chilometri dalla città, il nostro “buen retiro”. Ora lì è esplosa

la primavera con i suoi odori, colori accesi, ronzii, tepori; ecco, questa è la cosa che mi

manca di più. In assoluto. Adoro la primavera, per me la stagione più bella, quella che

mi fa rinascere e che dà un senso a tutto. Anche l’autunno mi piace molto, pure lui con i

suoi profumi, colori di acquerello; un lungo sbadiglio prima di addormentarsi. Tutto

mutevole.

Qui invece c’è sempre lo stesso quadro: le finestre con la facciata del palazzo di fronte,

immobile, amorfo. E la piazza vuota. Deprivazione sensoriale. Solo quelli che stanno in

galera, in isolamento, possono provare una tale assenza; quelli in cella, in qualche

modo si possono toccare, parlare, interagire, litigare, stare insieme. E’ già qualcosa.


12… 13… 14…


Resistere. Devo tenere duro. Non devo cedere.

Quando faccio questi percorsi da carcerato in ora d’aria, ascolto buona musica in cuffia.

Per non disturbare. Un contatto intimo, solo mio; con la mia musica preferita.

Passo giornate, e spesso nottate, a cercare buona musica e fare una mia privatissima

compilation. Un duro, ma piacevolissimo lavoro.

E’ tutta la vita che ascolto musica, la amo incondizionatamente, fa parte di me. Fin da

bambino.

Mi ha salvato la vita prima, ora mi dà la forza di andare avanti. Sempre alla ricerca di

una melodia, di parole, di poesie, di ritmi che mi diano emozioni e mi riempiono il cuore

e l’anima di gioia. Come si diceva una volta: good vibrations. Ed è vero. Ogni nota, ogni

accordo, ogni melodia toccano le mie corde e le fanno vibrare di piacere.


38… 39… 40…


un’altra barretta. Dietrofront. Si riparte.


Alienante


La musica, che meravigliosa forma d’arte!

Non sono credente, anzi non credo in niente e nessuno; ma se fossi credente direi che

gli angeli esistono e sono i musicisti, i cantanti, chi lavora in studio di registrazione, chi

produce. Un coro di angeli che fanno di tutto per darmi pace e gioia. Emozioni pure

come l’acqua di un ruscello di montagna, o come il mare agitato dal maestrale. Vorrei

essere come loro, ma il fare musica mi è stato negato e per me è forse l’unico rimpianto

della mia vita. Storie vecchie, dolorose e tristi. In compenso ne sono diventato un

appassionato e profondo ascoltatore. In ogni sua sfumatura. E comunque

continuo a non credere.


1… 2… 3…


1440 KHz sulle onde medie. Ancora mi ricordo la frequenza. Radio Luxembourg, la mia

passione per la musica nasce da lì. 1962 o giù di li. Ero un bambino di 6 anni e con mia

sorella, per sopravvivere agli orrori familiari, ci nascondevamo nel mio letto sotto le

coperte. Avevo una radiolina a transistor ed avevo scoperto Radio Luxembourg. Ero già

affascinato dalla musica e la sera accendevo la radiolina a volume basso sennò ci

sentivano e la magia si sarebbe dissolta. Quando si riusciva a sentire, ascoltavamo

musica, gli ultimi successi, i gruppi, il rock, il blues, il jazz. Un mondo sconosciuto in

Italia. Tutto da scoprire. Per motivi tecnici la musica andava e veniva, come un’ onda.

Trasmettevano da molto lontano, dall’Inghilterra, o da una piccola nave nelle acque

internazionali a sud dell’Inghilterra,un altro mondo allora. E quando calava il volume

tornava la paura ed il dolore. Magica radiolina! E’ un ricordo di splendore adamantino.

Oggi è tutto diverso. C’è sovrabbondanza di tutto ed il tutto è a portata di mano, basta

un click. Mica il pionierismo di allora.


38… 39… 40…


Pipì. Mi giro. Riparto dalla porta del bagno.


Alienante


Sono in soggiorno, mi fermo un attimo davanti alla finestra che dà sulla piazza. In giro

non c’è nessuno. Traffico inesistente. Un silenzio assoluto. Ma dove sono tutti? Cosa

sta succedendo? Emotivamente e socialmente tutto questo macello avrà conseguenze

pesantissime sulle persone, non ho dubbi. Sono in pochi che l’hanno capito. Per non

parlare del disastro economico. Tutto fermo. Solo io vado avanti e indietro, un inutile

moto perpetuo. Cosa succede dietro quelle finestre? Quando accadrà che tutti

apriranno le finestre e lanceranno il loro urlo lacerante di rabbia, tutti insieme in una

unica, devastante valanga sonora?

Mi riprendo e riparto.


19… 20… 21…


Adesso capisco cosa vuol dire sentirsi in gabbia.

Molti, molti anni fa sono andato allo zoo della mia città a fare un servizio fotografico

personale sulla pazzia che colpiva gli animali in gabbia. Ho sempre odiato gli zoo come

i circhi e me ne sono sempre tenuto alla larga, la sofferenza degli animali mi devasta;

decisamente meno quella dei bipedi umani. Ho cominciato a scattare foto, con un

groppo in gola che mi toglieva il respiro. Ma dove ho pianto è stato davanti alla gabbia

di una tigre: continuava a girare in tondo in questa microscopica gabbia, ogni tanto si

fermava e mordeva le sbarre. Le mordeva così forte che le sanguinava la bocca. Anche

adesso che scrivo, al solo ricordo mi viene da piangere. Le scattai un'unica foto, mentre

mordeva le sbarre. Ce l’ho ancora quella diapositiva, ma l’ho nascosta. L’ho nascosta

da qualche parte, dove so che non la troverò mai più. Non la voglio più vedere. Mai più,

troppo dolore.

Ora io sono quella tigre.


26… 27...28…


La mia playlist va avanti. Un brano dopo l’altro. Un passo dopo l’altro.

La mia musica, medicina della mia anima ormai vecchia, sgretolata, corrotta.

Passa dalle orecchie a tutto il corpo, dandomi calore, lenendo il dolore, dissolvendo le

preoccupazioni.

Adesso è partita “The Rain Song” dei Led Zeppelin nel ‘73. Avevo 15 anni. Una ballata

che mi tolse il fiato per la sua armonia, per la sua dolcezza. La canzone della pioggia…

ma come vi è venuta in mente, miei adorati Robert e Jimmy? Già allora un po’ di inglese

lo sapevo, per lo più scolastico; ma anche appreso dalle traduzioni che facevo dei testi

scritti nelle copertine degli LP. Quante ore passate col dizionario in mano, scoprendo

testi bellissimi, intimi. Frasi che mi hanno segnato, che mi hanno colpito lasciando un

segno indelebile.

“ È la primavera del mio amore

La seconda stagione che sto conoscendo

Tu sei luce del sole nella mia crescita

Sentivo cosi poco calore prima

Non è difficile farmi sentire ardente

Ho guardato il fuoco crescere lentamente… “


Continua il mio cammino. Almeno potessi essere fuori, nei vicoli. Avrebbe più senso.

Le cuffie mi inondano con “In My Life” dei Beatles. Brano bellissimo del ‘65.

Avevo 9 anni. Non sapevo ancora bene l’inglese ma adoravo quella canzone; forse era un segno. Col passare degli anni ho tradotto il testo e mi ha colpito così tanto che la voglio come colonna sonora quando morirò. Perchè mi rappresenta. Sono tante le cover fatte da allora, ma quella che più sento mia è quella eseguita da Diana Krall: più lenta, più vera, malinconica, una dolce carezza all’anima.


“ Ci sono luoghi che ricorderò

Per tutta la vita, anche se qualcuno è cambiato

Alcuni per sempre, non per il meglio.

Qualcuno se n'è andato, qualcuno è restato

Tutti questi luoghi hanno avuto un loro momento

Con amanti e amici, che riesco ancora a ricordare

Alcuni sono morti, altri sono vivi

Nella mia vita, li ho amati tutti…. “


Grazie a tutti voi! Gli anni 60, 70, 80, 90… che musica meravigliosa. Un concentrato,

tutto in quel periodo. Ed io l’ho attraversato assorbendo tutto: brani potenti, allegri, tristi,

arrabbiati, dolci, intensi, malinconici, dolorosi, strazianti. Molti di loro sono già morti e tra

poco anche gli altri se ne andranno. Ma hanno lasciato un segno indelebile, quelli della

mia generazione, gli anni 50, ne sanno qualcosa e mi capiscono. Oggi non più, oggi è

un altro oggi.


17… 18… 19…


Comincio ad essere un po’ stanco. Sono al quinto brano. Ormai cammino come un

automa. Un robot a molla dove la carica sta finendo.


Alienante


Conosco il percorso a memoria ormai. Provo a farlo ad occhi chiusi, diamogli un senso,

un brivido. Conto i passi, qui so che devo girare, qualche passo ancora... attento che

qui c’è il tavolino. Ce l’ho fatta, torno indietro.

Passo dopo passo. Ed i pensieri si accumulano nella mente, niente che abbia un senso;

sono solo sensazioni. Questa vita senza stimoli, monocorde, vegetativa, questa

assenza sensoriale sta dando dei risultati alquanto bizzarri: la notte faccio dei sogni

incredibili, dei veri film multisensoriali. Colori, odori, sensazioni fisiche. Storie astruse,

allucinogene, lisergiche. Molti di questi sogni sono come delle serie televisive, puntata

dopo puntata con un loro senso logico se mai le storie visionarie possano averne. Ed in

quasi tutte c’è il mare, con il suo profumo di salsedine ed io che passeggio sul

bagnasciuga con i piedi nell’acqua e tutto intorno che si modifica come in un enorme

caleidoscopio. Sarà che io ho sempre amato il mare e mai come adesso mi sta

mancando. L’assenza di sogni porta altri sogni.

A volte però sono sogni colorati di sfumature di grigio… o privi di colore , come una

tastiera di pianoforte con tutti i tasti bianchi. Alienante.

Straniante


Alienante


33… 34… 35…


Quinto brano. Avanti e indietro. Da est verso sud, poi ad ovest per arrivare a nord.

Ho due gatte in casa: una molto vecchia e totalmente sorda, ormai alla fine dei suoi

giorni. L’altra più giovane che nutre un amore sconfinato nei miei confronti. Cammino

davanti a loro che stanno ferme ad osservarmi incuriosite sullo schienale del divano. La

giovane mi guarda con la coda a punto interrogativo. La vecchia ogni tanto tira un

miagolio sgraziato per chiamarmi, non si sente quindi miagola tutta scordata. Due

coccole, anche di più, perché vi amo, esseri viventi puri ed incontaminati.

La vecchia mi fa pensare alla fragilità delle nostre vite. Ti manca poco amore mio, poi

sarà uno strazio. Un altra brutta cicatrice sul mio cuore dove sopra ce n’è già un ricamo.


19… 20… 21…


Un passo dopo l’altro. Mi fermo in cucina che ho sete. Sto sudando. Bevo guardando

l’orologio appeso al muro, la fragilità delle nostre vite in un quadrante. Un quadrante

bianco con solo un’ora: dalle dodici all’una. Sono nato che era mezzogiorno. Adesso

sono a mezzogiorno e tre quarti. Arrivato all’una poi non c’è più niente. Quadrante

vuoto, bianco. E la lancetta dei secondi, bastarda, inesorabile, va avanti. Cazzo.

Vorrei saper dipingere per colorare questo ritratto del tempo, ma ho solo una tavolozza

vuota ed un pennello senza peli.

E la mia vita comunque va avanti, come questa inutile camminata. Ho smarrito dei

pezzi, ma non ricordo più dove li ho persi. O se qualcuno li ha trovati ma non me li ha

mai restituiti. E non posso più tornare indietro, sempre avanti, passo dopo passo. Porta

del bagno, porta di ingresso. Almeno il bilancio finale è decisamente positivo.


7… 8...9…


Ho approfittato di questi inutili giorni per fare pulizia nella mia vita. Era necessario.

Pulizie pasquali. Troppa polvere. Ho tenuto solo gli amici più cari, quelli fraterni, quelli

della vita 1.0. Quei pochi con cui sono cresciuto da ragazzo, insostituibili, che mi hanno

salvato dall’oblio e dato la forza di resistere. Ho tenuto poi gli amici, che posso contare

sulle dita d’una mano, con cui ho vissuto la mia vita 2.0, la 3.0 ed ora la 4.0, solide

colonne portanti che tengono ancora in piedi questo vecchio, traballante, palazzo di carne degli anni 50.


Ho fatto pulizia, Cancellato numeri, eliminato persone passate al setaccio fine; erano

solo grumi, molti grumi. Alla fine è rimasta poca roba, ma buona.

Mai stato sui social, che detesto, solo una serie di persone e di gruppi e parenti su

Whatsapp depennati, azzerati. Puff!

Sempre stato un asociale, nel senso che sto bene da solo. Con una vena di misantropia

accentuata da questo squallido periodo.

Sto bene solo con la mia amata moglie ed i miei adorati gatti. Parlo poco, molto poco.

Ma so ascoltare e quello che ho ascoltato in questo mese mi ha messo in mano la

gomma per cancellare tanto: via la tv, via il cell, via i giornali, via il genere umano. Una

vera rottura di coglioni. Argomentazioni monocordi infarcite di ziggurat di blablabla a

senso unico. Basta, via, cancellare, finish, stop! Ho recuperato un sacco di pagine

bianche su cui riscrivere la mia storia.


20… 21… 22…


Porta del bagno, ingresso, e ritorno, step by step. Come il ciclo dell’acqua.

Comincio ad essere veramente stanco.

Quanti Km avrò fatto? Ieri ne ho fatti 3 e qualcosa in più, ma oggi sono andato oltre.

Forse perchè la musica, in sequenza casuale, era particolarmente bella. Il lettore

musicale ha capito il mio stato d’animo. Ha cercato di tirarmi su il morale proponendo

una serie di blues strazianti.

Quanto mi piace il blues!

Quello elettrico, quello dei grandi chitarristi, con quegli accordi in settima e nona che mi fanno palpitare il cuore. E quegli assoli di chitarra che mi esaltano l’anima. Bellissimi. Quanto mi piace il blues!

Anche il jazz mi piace da morire. Specialmente quello cantato; cantato da voci

femminili, dalle voci un po’ scure. Le voci delle cantanti di colore, mi fanno impazzire.

Forse perchè, sia il blues che il jazz, nascono dai campi di cotone. Contrasto tra bianco

e nero. Sofferenza e resilienza. Voci incredibili, che mi emozionano fino alle lacrime. O

forse qualche lontana reminiscenza, ormai persa nelle nebbie della vita, della mia tata

Tina. Da bambino, mi accudiva più lei di quella palpabile assenza di mia madre. Mi

coccolava, mi accarezzava, mi baciava conscia del mio baratro affettivo, e ricordo come

se fosse adesso quando mi faceva il bagno, che mi cantava con la sua voce roca ma

bellissima le canzoni che le piacevano. Non era una bella donna, piuttosto sgraziata,

ma che voce; e quanto amore. Cantava sempre, tante canzoni: una fra queste, che

eseguiva spesso, era “Estate” di Bruno Martino, canzone che amo con tenerezza

ancora oggi.

Che tracce che lascia la musica in me, incredibile. Poi vennero i Beatles ed il mondo,

per me, non fu più lo stesso. Posso dire che sono stato amato dalla musica quasi

quanto l’ho amata io.


33… 34… 35… 36… 37… 38… 39… 40…


Basta. Adesso basta. Ho fatto circa 4 chilometri. Sono decisamente stanco e mi fa male

un ginocchio. La natura non ci pensa due volte a ricordarti che hai un’ età. In molti

fanno finta di niente, vogliono sempre sentirsi giovani, che ipocriti! Io no, io ascolto la

natura, e le sono grato: mi ha dato una vita piena, complicata, incasinata, con gioie e

dolori, amori, amici, tante belle cose e tante cose da dimenticare. Insomma, una vita.

Neanche a farlo apposta in cuffia parte il brano “When The Music’s Over” dei Doors.

Che caso!

“Quando la musica è finita

Quando la musica è finita

Quando la musica è finita

Spegni le luci

Spegni le luci

Spegni le luci

Perché la musica è la vostra speciale amica

Danzate sul fuoco come lei richiede

La musica è la vostra unica amica

Fino alla fine

Fino alla fine

Fino alla fine”


Per oggi la camminata con i miei pensieri bislacchi e la mia musica può bastare. E’ ora

di farmi un buon caffè. L’alienazione però rimane.

Tra qualche minuto, attraverso la porta finestra del balconcino dietro casa, apparirà il

sole. Per circa tre ore mi posso sedere in quello spicchio di calda gioia, e scaldare la

mia vecchia e ferita anima al calore di un magnifico sole primaverile. Sempre con la mia

musica preferita di sottofondo. E libererò la mia mente.

Per un po’.

Forse.